domenica 8 luglio 2012

Critiche all'MMT tradotte in italiano


 Carmen e Istwine hanno gentilmente tradotto su Voci dall'estero il mio nuovo post sull'MMT. Grazie!

LA FALSA VITTORIA DELLA MMT


Un nuovo articolo di Sergio Cesaratto rilancia la discussione sulla MMT - teoria universale e salvifica o tassello parziale da aggiungere ad un quadro più complesso e generale? Per il Prof di Siena è la seconda. In fondo all'articolo i riferimenti all' interessante dibattito che ne è seguito.
Grazie ad Istwine per la preziosa collaborazione!
In un aggregatore di blog molto seguito, Randy Wray ha proclamato la vittoria della MMT, e che adesso siamo tutti seguaci della MMT. Ma vittoria su chi? Io personalmente non mi sento MMT, o meglio, mi sento MMT, Sraffiano, Kaleckiano, Marxista e tante altre cose, ognuna presa cum grano salis. Fanatismo ed esaltazione non fanno parte dell’Economia eterodossa, per non parlare del lavoro accademico, e il fatto che Wray si sia così innervosito dopo un primo commento critico da parte di un lettore ci fa capire che siamo ben lontani da un dialogo sull’economia freddo ed equilibrato. La MMT, come altri approcci, ha espresso molte importanti intuizioni riguardo alla crisi Europea. Anche intellettuali della parte opposta come Werner Sinn, hanno contribuito alla nostra comprensione della crisi, in questo caso per ciò che riguarda il ruolo del TARGET2 (che Wray menziona per la prima volta o quasi). La MMT però in effetti non ha compreso la principale caratteristica della crisi dell’Eurozona: la sua natura di crisi di bilancia dei pagamenti. Ad ogni modo, non considero la spiegazione data dalla MMT come alternativa, ma come complementare all’idea di crisi da BdP. A questo proposito, una maggiore modestia aiuterebbe tutti nella nostra attività politica e scientifica. Mentre il mio punto di vista sulla crisi come crisi da BdP lo si trova qui (questo WP è una versione più lunga di un articolo di un libro che verrà probabilmente pubblicato da Routledge, mentre una versione blog si trova qui), di seguito potete trovare alcune osservazioni critiche riguardo all’idea della MMT sulla crisi dell’Eurozona, le quali fanno anch’esse parte di un paper più lungo che verrà pubblicato in Spagnolo. Queste osservazioni sviluppano ulteriormente l’articolo sulla MMT già pubblicato qui, che è anch'esso una sezione del WP. Detto questo, sono pronto a riconoscere che, con Godley 1992 e De Grauwe 1998, Kelton e Wray (e pochi altri come Barba e Pivetti) hanno formulato delle lungimiranti previsioni sulla crisi imminente, ognuna volta a metterne in evidenza un particolare aspetto.


Consideriamo un’economia in cui un deficit del settore pubblico sia accompagnato da un deficit delle partite correnti. Data la piena sovranità monetaria, gli studiosi della MMT applicano lo stesso argomento previsto per un’economia chiusa ad un’economia aperta: un deficit pubblico corrisponde a una ricchezza privata netta o del settore privato interno o del settore estero, perciò non vi sono limiti alla quantità di titoli del governo detenuti all’estero “fintantoché il resto del mondo vuole accumulare i suoi pagherò”:

un paese può avere un deficit di partite correnti fintantoché il resto del mondo vuole accumulare i suoi pagherò. Il surplus in conto capitale del paese “bilancia” il suo deficit di partite correnti … Possiamo anche considerare il deficit di partite correnti come la conseguenza del desiderio da parte del resto del mondo di accumulare risparmi netti in forma di crediti verso il paese.” (Wray 2011 MMP26)

È difficile credere che la condizione fintantoché il resto del mondo vuole accumulare i suoi pagherò” sia applicabile alla maggior parte dei paesi.
Per sostenere la sua posizione, Wray estende la teoria Cartalista sulla moneta – la valuta emessa dallo Stato per finanziare le proprie spese è accettata giacché lo Stato stesso accetta i pagamenti delle tasse solo in quella valuta – al settore estero, anche se questo non deve pagare le tasse al paese in deficit:
Ogni Stato sovrano ottiene “qualcosa per niente” imponendo un carico fiscale, e quindi emettendo la valuta utilizzata da coloro i quali devono adempiere alla propria obbligazione. La sola differenza qui è che il Governo USA ha ottenuto beni prodotti all’estero, da individui che non sono soggetti al suo potere impositivo – in altre parole, da chi non paga le tasse negli USA. Tuttavia, anche all’interno di un paese ci possono essere individui che eludono ed evadono la tassazione imposta dal potere sovrano, ma che sono comunque disposti ad offrire i propri prodotti in cambio di valuta sovrana. Perché? Perché i cittadini che non sono nella posizione di poter eludere o evadere le tasse hanno bisogno di quella valuta, dunque sono disposti ad offrire la propria produzione per ottenerla. Il dollaro USA ha valore all’estero perché i contribuenti Statunitensi necessitano di quella valuta.” (Wray 2006a: 22)
Non sembra, comunque, che i Cinesi vogliano dollari per acquistare beni dai contribuenti Statunitensi (o per acquistare beni da coloro i quali vorrebbero acquistare beni Statunitensi). I Cinesi non esportano negli Stati Uniti con lo scopo di importare da loro, ma ciò nonostante accettano dollari USA per complesse ragioni che fanno del dollaro una valuta unica, ragioni che non consideriamo qui. A parte il particolare status del dollaro Statunitense come valuta preferita a livello internazionale, si può dire che solo le valute forti di paesi con persistenti surplus delle partite correnti – che è utile identificare qui come paesi mercantilisti, per esempio la Svizzera o la Germania – possono avere lo status di valute internazionali. Le passività denominate nella valuta di paesi non mercantilisti (con l’eccezione degli USA) non hanno l’accettazione illimitata che Wray ritiene che avrebbero solo sulla base della piena sovranità monetaria a prescindere dal tasso di cambio (che potrebbe scoraggiare gli stranieri ad accettare pagherò denominati in quella valuta), comepretende Wray (2011 MMP 11) in passaggi come questo:

Ciò che è importante per la nostra analisi, comunque, è che con un tasso di cambio flessibile, un governo non ha bisogno di preoccuparsi dell’eventualità di rimanere privo di riserve internazionali (o riserve in oro) per il semplice fatto che non converte valuta straniera in valuta interna ad un tasso di cambio fisso. In effetti, il governo non deve promettere alcuna conversione.”
Tuttavia, è precisamente questa mancata promessa, o la sua insostenibilità nel lungo periodo (come in molti casi di currency board), e l’aspettativa di un deprezzamento della valuta, che implica che il governo di un paese non mercantilista potrebbe dover pagare sui propri debiti degli interessi che potrebbero rendere insostenibili deficit e debito interno e, simmetricamente, deficit e debito estero. Perciò, non è tanto la piena sovranità monetaria di una valuta, quanto la più terrena e concreta situazione delle partite correnti del paese che fa la differenza in termini di sostenibilità di quei debiti (Frenkel and Rapetti 2009: 689). I tassi di cambio flessibili aiutano, certo, ma non tanto perché assicurano l’accettazione di un qualunque ammontare di passività a tassi d’interesse sostenibili – come potrebbero? – ma perché possono contribuire a riequilibrare nel lungo periodo i conti con l’estero e (simmetricamente) a stabilizzare la contabilità degli stock e dei flussi interni. Paradossalmente Wray (2011 MMP 25) sembra invitare i paesi “in cui la domanda estera di assets denominati in valuta interna è limitata” a perseguire la catastrofica strada dell’indebitamento estero (per loro “c’è sempre la possibilità che il settore privato prenda a prestito in valuta estera per promuovere lo sviluppo che aumenterà la capacità di esportare”) il quale, peraltro, presuppone la rinuncia alla sovranità monetaria.

Wray si sofferma, tuttavia, solo su un aspetto della sovranità monetaria, quella che possiamo definire “interna”, cioè la possibilità del governo di finanziare ogni ammontare di spesa al tasso d’interesse nominale desiderato, concedendo al massimo un benevolo disinteresse al ruolo del tasso di cambio nel mettere in sicurezza il saldo estero, ciò che potremmo definire come l'aspetto “esterno” della sovranità monetaria. Se, per esempio:

si ritiene che un deficit di bilancio possa far crescere la domanda e aumentare il deficit commerciale o causare inflazione – cose che possono, entrambe, influire negativamente sul valore del tasso di cambio della valuta – la banca centrale potrebbe reagire aumentando il tasso d’interesse per sostenere la domanda di valuta (…) da parte del resto del mondo. La politica di bilancio è vincolata anche dalle pressioni percepite sui tassi di cambio. Per essere precisi, anche i paesi che hanno tassi di cambio flessibili formulano la propria politica monetaria e fiscale tenendo conto dei possibili effetti sul tasso di cambio. Tuttavia, con un sistema di tassi di cambi fissi, c’è veramente poco spazio di manovra … Ciò che potremmo chiamare potere sovrano viene decisamente ridotto. Non è una coincidenza che i paesi che operano con tassi di cambio fissi oggi siano costretti ad implementare politiche di austerità – e che siano immediatamente puniti quando cercano di adottare politiche espansive. I principi discussi sopra in realtà non si applicano alla finanza di un governo che agisca in un regime di cambi fissi. Effettivamente se vi è la promessa di convertire la valuta interna ad un tasso di cambio fisso, le passività del governo sono “garantite” da valuta straniera o da riserve in oro. L’adozione di tassi di cambio flessibili aumenta l’indipendenza della politica interna. (Wray 2006b: 9)

Ma, ancora una volta, la difficoltà non sembra il fatto che vi sia “una promessa di convertire la valuta interna a un tasso di cambio fisso”: fintanto che un paese ha riserve internazionali in abbondanza, questo non è affatto un problema. Il vero problema è ancora la condizione strutturale dei conti con l'estero di un paese. Sistemi di cambi fissi o unioni monetarie si adattano perfettamente ai paesi mercantilisti, come mostra l’esperienza della Germania durante il regime di Bretton Woods, l’UEM e lo SME (Cesaratto e Stirati 2011). Di certo non sono adatte a paesi non mercantilisti. Con tassi di cambio fissi non è tanto il limite alla possibilità di monetizzare il debito a causare alti tassi d’interesse (sino a che un paese possiede una banca centrale sovrana la monetizzazione in linea di principio è sempre possibile) bensì il fatto che il tasso di cambio potrebbe essere incompatibile con gli squilibri con l’estero. Questo può portare allo stesso tempo a politiche interne restrittive, che influiscono negativamente sul PIL, e ad elevati tassi d’interesse allo scopo di garantire il finanziamento estero del debito estero/interno. I tassi d’interesse più alti peggiorano il saldo dei redditi netti dall’estero nel conto delle partite correnti (e simmetricamente il costo degli interessi sui debiti interni). Questo, unito alla stagnazione del PIL, porta il paese ad una situazione di insostenibilità del rapporto debito/PIL interno. [1] I paesi non mercantilisti necessitano di tassi di cambio flessibili non per essere in grado di emettere qualunque ammontare di passività con l'estero – dato che sono “garantite da valuta nazionale” – come pretende Wray, ma perché la flessibilità del tasso di cambio è lo strumento necessario, seppur con diversi limiti, per rendere compatibile lo stimolo alla domanda interna con l'equilibrio dei conti con l’estero. (Potrebbero anche essere necessari dei controlli sui deflussi di capitali per permettere al paese di finanziare i propri deficit di bilancio a tassi d’interesse sostenibili). [2] Per una terza categoria di paesi, il regime di cambio è irrilevante: come notoriamente disse una volta il Segretario del Tesoro USA, Paul Paulson: “Il dollaro è la nostra valuta, ma è il vostro problema”. Questo è l’ “esorbitante privilegio” denunciato dall’allora Ministro delle Finanze di De Gaulle, Giscard D’Estaing.

Anche se Wray non trascura il fatto che la possibilità di far aumentare a dismisura il debito estero è dovuta all’ “egemonia del dollaro”, cioè a una prerogativa Statunitense, egli tuttavia tende a minimizzarlo come un problema secondario. Infatti, laddove discute esplicitamente il problema, egli ammette con riluttanza (ma apertamente) che il dettaglio insignificante che ogni Stato “può incorrere in deficit di bilancio che contribuiscono ad alimentare deficit di partite correnti senza preoccuparsi dell’insolvenza dei conti nazionali o dei conti pubblici” si applica, in effetti, solamente agli Stati Uniti. “esattamente perché il resto del mondo vuole Dollari. Ma di certo questo non può essere vero per ogni paese. Attualmente il Dollaro USA è la valuta di riserva internazionale – il che fa degli Stati Uniti un paese speciale.”e “le due ragioni principali per le quali gli Stati Uniti possono realizzare persistenti deficit di partite correnti sono: a) praticamente tutto il suo debito estero è in Dollari; e b) la domanda estera di assets denominati in Dollari è elevata – per una serie di ragioni.”(Wray 2011 MMP 25).

Perciò Wray ha ragione quando dice che la piena sovranità monetaria è utile per implementare politiche di piena occupazione, ma non per le giuste ragioni. Non è vero che, a parte gli Stati Uniti, i “paesi normali” possono finanziare qualunque ammontare di spesa pubblica (e anche privata) emettendo una valuta accettata a livello internazionale (quindi senza preoccuparsi del saldo estero). In particolare, i paesi non mercantilisti sperimentano di solito un vincolo estero alle politiche di piena occupazione. Nel loro caso la completa sovranità monetaria conta non tanto rispetto al suo significato “interno” di capacità di emettere qualunque quantità di moneta – che è chiaramente impossibile – quanto dal punto di vista “esterno” rispetto ai tassi di cambio flessibili che fanno in modo che ci sia un equilibrio estero mentre il paese persegue le politiche desiderate. È il ruolo esterno della sovranità monetaria che permette (come noto) alla politica monetaria di finanziare la spesa pubblica a tassi d’interesse sostenibili (questo potrebbe richiedere anche un controllo sui movimenti dei capitali). Una prova del perché Wray sia in errore sta nell’esperienza della periferia dell’Eurozona: nonostante la mancanza di una sovranità monetaria nazionale, durante gli anni dell’UEM (Unione Monetaria Europea) la spesa privata e pubblica ha beneficiato di bassi tassi d’interesse nominali (e tassi d’interesse reali negativi): da questo punto di vista una banca centrale sovrana non avrebbe potuto fare di meglio. I problemi sono sorti sull’aspetto esterno della mancanza di sovranità monetaria: l’impossibilità di aggiustare i crescenti squilibri con l’estero (dovuti a un forte aumento delle importazioni e alla perdita di competitività di prezzo). Questi squilibri sono alla base del progressivo aumento degli spreads sovrani, non la politica della BCE. Certo, un’azione forte della BCE per abbattere gli spreads (cosa che potrebbe fare) sarebbe enormemente d'aiuto una volta che gli spreads aumentassero. Ma non risolverebbe gli squilibri con l’estero che sono all’origine della crisi e che, invece, sono maturati quando gli spreads sovrani erano a livelli storicamente bassi.


Senza dubbio, a livello Europeo aggregato e con la garanzia di intervento della BCE, gli squilibri finanziari sarebbero perfettamente sostenibili, ed effettivamente l’Eurozona sarebbe un paese perfettamente MMT che emette una valuta internazionale (e anche con un saldo delle partite correnti in equilibrio con il resto del mondo). Le riforme istituzionali richieste perché l’Eurozona assomigli agli USA sarebbero comunque troppo impegnative per un club di nazioni indipendenti quale è in realtà l’Europa. Sarebbe necessario il trasferimento di molte funzioni del bilancio statale ad un governo federale, assieme ai debiti pubblici esistenti, mentre gli Stati locali funzionerebbero come gli Stati federati Americani. I trasferimenti federali dalle aree dinamiche verso le aree in difficoltà dovrebbero aumentare enormemente, mentre un minimo standard di welfare dovrebbe essere riconosciuto a tutti i cittadini Europei. La mobilità del lavoro e gli investimenti diretti intra-Eurozona dovrebbero essere incentivati. Bello, ma fuori dalla nostra portata. Naturalmente basterebbe molto meno per riequilibrare l’Eurozona, ma anche questo sembra essere un’utopia, dato che richiede un profondo cambiamento nell’attitudine mercantilista dell'economia dominante.



Tornando alle critiche a Wray e ai suoi compagni MMT, la piena sovranità monetaria, ovvero il potere di un paese di emettere una valuta non convertibile che sia universalmente accettata per i pagamenti interni ed esteri, non è, con la possibile eccezione degli USA, una piena prerogativa di tutti i paesi, e dunque non è neanche la panacea di tutti i mali che ritengono gli esponenti MMT. L’evidente mancanza di considerazione dei problemi negli scambi con l’estero che un paese “normale” sperimenterebbe nel caso in cui un maggiore deficit/debito pubblico si combinasse con un aumento del deficit/indebitamento netto con l’estero, implica una non considerazione da parte della MMT del vincolo estero che i paesi “normali” incontrano nel sostenere la domanda di piena occupazione anche con tassi di cambio flessibili. Gli esponenti della MMT rispecchiano troppo la particolare posizione degli USA come emittente del principale mezzo di pagamento a livello internazionale. [3] Non considerare il vincolo esterno – che può essere espresso come la necessità per i paesi “normali” di mantenere il saldo delle partite correnti in equilibrio nel lungo periodo, cioè, un equilibrio tra entrate e uscite di riserve internazionali – porta gli esponenti della MMT ad una interpretazione parziale della crisi Europea. Questa non dipende solo ed esclusivamente dall’abbandono della sovranità monetaria per ciò che concerne la possibilità di monetizzare i debiti pubblici (e interni), in particolare gli alti spreads sui debiti sovrani non dipendono da questo. È semmai l’abbandono della flessibilità delle valute in un’area valutaria non ottimale in un contesto di liberalizzazione finanziaria che prima ha portato ai flussi di capitali dai paesi centrali verso i paesi periferici che tipicamente si sviluppano in un contesto di tassi di cambio fissi. In seguito, gli squilibri interni/esteri che ne sono derivati sono diventati insostenibili per via dell’inversione dei flussi di capitali (anch’essa tipica) e dei conseguenti drammatici aumenti degli spreads sovrani (e non sovrani). Quindi la storia non è esattamente come la descrivono gli studiosi MMT. La spiegazione deve per forza di cose passare attraverso gli squilibri esteri che, invece, sono da loro trascurati, rispecchiando forse una particolare visione tipicamente Americana.



Bibliografia:

Frenkel R. and Rapetti M. (2009)http://cje.oxfordjournals.org/content/33/4/685.abstract - aff-1#aff-1 A developing country view of the current global crisis: what should not be forgotten and what should be done, Camb. J. Econ. (2009) 33 (4): 685-702.

C. Sardoni & L. Randall Wray, 2007. "
Fixed and Flexible Exchange Rates and Currency Sovereignty," Economics Working Paper Archivewp_489, Levy Economics Institute,

Wray L.R. (2006a) Understanding Policy in a Floating Rate Regime, Working Paper No. 51, Center for Full Employment and Price Stability, University of Missouri-Kansas City

Wray L.R. (2006b) Extending Minsky's Classifications of Fragility to Government and the Open Economy by. Working Paper No. 450 The Levy Economics Institute.
Wray L.R. (2011 MMP 11) Modern Money Theory and Alternative Exchange Rate Regimes
http://www.neweconomicperspectives.org/2011/08/mmp-blog-11-modern-money-theory-and.html

Wray L.R. (2011 MMP 25), Currency Solvency and the Special Case of the US Dollar http://neweconomicperspectives.org/2011/11/mmp-blog-25-currency-solvency-and.html
Wray L.R. (2011 MMP 26) Sovereign Currency and Government Policy in the Open Economy,
http://neweconomicperspectives.org/2011/11/mmp-blog-26-sovereign-currency-and.html


Note:
[1] Che l'ancoraggio del cambio non sia un problema per i paesi mercantilisti è in parte riconosciuto da Nersisyan e Wray (2010: 13): 'L'adozione di un ancoraggio del cambio costringe un governo a cedere almeno una parte dello spazio della politica fiscale e monetaria - naturalmente, i vincoli sono meno restrittivi se il paese registra delle eccedenze nelle partite correnti e può accumulare riserve di valuta estera (o metallo prezioso).[2] Sardoni e Wray (2007: 15-6) considera la flessibilità del tasso di cambio come un pre-requisito per la politica di bilancio di piena occupazione nella misura in cui lo Stato può finanziare la spesa non tenendo conto degli equilibri con l'estero. La loro unica preoccupazione è per le possibili conseguenze sull'inflazione interna, mentre gli effetti positivi della bilancia commerciale sono anche considerati con sospetto (dal momento che un deficit commerciale è visto come sostenibile e positivo dal punto di vista del benessere nazionale). Queste argomentazioni sembrano riflettere la posizione unica degli Stati Uniti e non guardano al quadro generale.[3] L'EZ è nella stessa posizione, ma purtroppo non trae vantaggio da questa opportunità.


Ed ecco il dibattito successivo:



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